Recenti studi hanno dimostrato che dall’insorgere di un disagio psicologico alla richiesta di aiuto passa un lasso di tempo entro il quale il problema che affligge la persona influisce percettibilmente nella conduzione della sua vita quotidiana fino ad arrivare all’invalidazione di aree specifiche del vivere.
Si intende come disagio psicologico tutte quelle situazioni problematiche che investono la persona a prescindere dallo stato psichico più o meno patologico e conclamato nonché sintomatico di nevrosi, psicosi e disadattamento.
Possiamo definire il disagio psicologico come un problema di natura emotiva che si manifesta con profonda tensione, preoccupazione e che genera un grado di insoddisfazione del vivere – attività e interazioni – e nel viversi – nella percezione, nell’immaginazione, nella motivazione, nelle pulsioni, nelle decisioni –  e che non permette alla persona di poter esplicare al meglio la propria personalità.
Emozioni disforiche come l’ansia, la paura, l’insicurezza, la non tranquillità, sono risposte a quelle realtà che la persona considera “negative”, non volute ma subite e che lo coinvolgono in un equilibrio instabile e precario nell’esplicazione della propria modalità creativa di vivere.
La capacità di risanarsi autonomamente è la spinta vitale più potente che la persona ha in sé per se stessa e verso le relazioni significative della sua vita, infatti è la capacità di risanare i conflitti e dispiegarli che contraddistingue il saper muoversi con amorevolezza della persona che sceglie la sfida con la vita come una grande opportunità e non soltanto come un grande peso da sostenere.
Ed è primariamente verso se stessa che la scelta della persona si sposta nella direzione dell’ amorevolezza e della cura, l’autocura. O perlomeno così dovrebbe essere. Questa capacità profonda include anche il saper chiedere aiuto correttamente.
Anche se per il continente “Psiche” la tendenza è verso una confusione strutturale che passa tra i poli estremi della scelta per la soluzione.
Ad un polo troviamo la medicalizzazione eccessiva che porta inevitabilmente a considerare qualsiasi squilibrio emotivo e affettivo come una parte del “corpo malato” e all’altro polo troviamo terapie fittizie e pericolose per molti disagi psichici in quanto coinvolgono la persona sofferente in pratiche quotidiane abbiette e irrispettose puntando proprio sulla fragilità e il bisogno disperato di riuscire a risolvere il problema.
Ma andiamo per gradi, se nel caso di episodi psicotici soprattutto agli esordi di essi, la richiesta d’aiuto psichiatrico è tempestiva da parte dei familiari della persona sofferente, per i disturbi psicologici di media o lieve entità in cui non sussistono implicazioni limitanti e immediate nel lavoro e nel contesto socio – familiare, è il soggetto stesso che tende a procrastinare la richiesta d’aiuto.
Gran parte di queste persone si muoveranno primariamente verso il medico di base e verso la richiesta di farmaci o saranno condotte verso l’intervento farmacologico, iniziando la lenta cronicizzazione di un disturbo risolvibile efficacemente con la Psicoterapia.
Riguardo gli psicofarmaci è importante specificare che essi possono essere considerati come coadiuvanti un lavoro psicoterapico ma non come un fattore primario per ottenere determinate modifiche nel comportamento esterno e/o interno la persona.
L’assunzione di psicofarmaci può, in sostanza, facilitare ed accelerare la scomparsa di sintomi e perciò attenuare la modalità disfunzionale di esprimersi della persona ma non cambierà il tratto unico e irripetibile di personalità.
Per fare un esempio, una persona che ha una spiccata tendenza alla lettura simbolica della realtà, con un intervento farmacologico bloccherà sicuramente l’agire tragico della sua essenza nel vivere in famiglia vivendo finalmente un sollievo dai tentativi di smodato controllo proiettato all’esterno.
Se coinvolto in una discussione o in una decisione importante, questa persona esplicherà il suo modo di pensare e vedere la vita accorgendosi così che ciò che agiva all’esterno non era altro che il suo peculiare  modo di percepire il mondo.
Con l’intervento farmacologico la modifica del disturbo è dunque sintomatica e se questo è un presupposto nel contenimento di condotte gravemente disadeguanti verso se stessi, verso gli altri e verso l’ambiente in cui vivono le persone che soffrono di  patologie psichiche gravi, non corrisponde a una risposta risolutiva per i disagi psicologici sopra intesi.
La Consulenza Psicologica è il primo approccio nella relazione d’aiuto psicologico e l’obbiettivo è primariamente quello di specificare e analizzare nella relazione terapeutica il problema insorto.
Qualsiasi sia la soluzione al disagio di cui la persona soffre, essa viene proposta dallo psicologo e non imposta. Il vaglio delle alternative con l’analisi dei vantaggi ma anche con l’analisi decisionale delle conseguenze più spiacevoli, vuole tutto il tempo necessario alla persona per decidere il da farsi.
Perché si parla di conseguenze più spiacevoli, perché è importante che teniamo presente che il disagio psicologico è il tentativo – rappresenta il tentativo – della persona di adattarsi alla realtà ed è un tipo estremo di ribellione a cui si ricorre quando prendere decisioni complesse di ri-equilibrio della propria personalità in rapporto col mondo, la comunità, la famiglia, l’altro da sé, diventano penose e insostenibili così come altamente improbabili.
Quell’istante, quel tempo, ritorna al soggetto sofferente come momento decisionale e non come tempo delegato, nell’interezza e nel rispetto della sua personalità.
Questa è una delle  peculiarità che contraddistinguono deontologicamente l’agire terapeutico dello psicologo.
Approfondendo l’argomento in atto sull’agire terapeutico, vorrei accennare ad alcuni paradigmi che riguardano la Psicoterapia Analitica di mia competenza.
Il primo obbiettivo della Psicoterapia Analitica è quello di consentire e promuovere la consapevolezza dei contenuti emotivi e delle loro valenze, nella persona.
Essa, quindi, mira a chiarire le radici inconsce del pensiero, delle emozioni e del comportamento.
La conoscenza degli aspetti inconsci del proprio comportamento consente alla persona di giungere alla sorgente del disagio psicologico di cui soffre e al chiarimento del significato dei sintomi che lo contraddistinguono, la finalità terapeutica diventa, dunque, quella di attenuare o risolvere quando questo è possibile, i sintomi fino alla risoluzione ottimale del disagio psicologico complessivo.
Il processo di consapevolezza descritto è semplicemente favorito, e non indotto, nella relazione terapeutica in quanto per il terapeuta la persona che chiede il suo aiuto va bene così come essa è.
Concludo questo mio intervento accennando a ciò che considero educarsi al benessere psicologico; in questo nuovo tempo è importante imparare a dialogare con le nostre molteplici forze contrastanti, questo ci insegna ad ascoltare e a mettere in evidenza le risorse e le capacità risolutive che abbiamo sopite in noi stessi.
Scegliere di intraprendere e percorrere un percorso terapeutico psicologico è un atto di fiducia in noi stessi e nella nostra capacità di integrazione mente-corpo, è un atto di fiducia nella nostra capacità di discernere tra ciò che è buono o no per noi stessi.
In sostanza ritroviamo nella relazione terapeutica anche la grande opportunità di poter ricostruire l’interazione con l’altro proprio come vorremmo che nella realtà, con gli altri, la nostra profonda e genuina natura si mostri.
Alimentando la speranza verso il futuro, l’autostima, il coraggio e la soddisfazione.

(Fonte: http://www.nienteansia.it/)

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